Sovente, soprattutto nel comparto investigativo, si parla di concorrenza sleale, ma altrettanto spesso non si approfondisce il profilo dell’argomento e quindi ne discende una trattazione talora estremamente sintetica, con la citazione di alcuni articoli del codice civile, ma non si entra nello specifico delle articolazioni possibili in cui solitamente si manifesta il fenomeno, lasciando interrogativi irrisolti che possono anche scoraggiare la richiesta all’istituto investigativo di uno specifico incarico.,
COSA E’ LA CONCORRENZA SLEALE
La concorrenza sleale si concretizza in una serie di comportamenti disonesti ed azioni scorrette che il Legislatore ha raggruppato, definendole in una classificazione normativa tipicizzata ed illustrata nel codice civile e in altre leggi speciali. In un contesto di mercato libero ciò che contraddistingue l’imprenditore e ne formula la propria corporate identity sono i suoi tratti distintivi, definiti da un marchio (per realtà produttive) ma anche da un’insegna o dalla tipicità del prodotto o ancora dallo stesso sistema di produzione. In un contesto corretto di competizione tra imprese esiste infatti un meccanismo premiativo, ove i prodotti (o i servizi) migliori vengono premiati, appunto, attraverso l’acquisto o il consumo da parte dei clienti, per generi di larga diffusione, i consumatori. L’atto di confusione sui tratti distintivi genera una distorsione della linearità di questo libero mercato, alterandone i presupposti competitivi, e determinando non solo un danno all’impresa che subisce la slealtà dei concorrenti ma anche agli stessi consumatori finali che vengono sostanzialmente ingannati o comunque fuorviati da pratiche concorrenziali scorrette. Nel tempo si è sviluppata, accanto all’idea del libero mercato, anche quella della necessità di creare pacchetti normativi che regolamentassero la leale competizione tra imprese, evitando che tale competizione divenisse selvaggia.
QUALI SONO I PRESUPPOSTI AFFINCHE’ SI POSSA PARLARE DI CONCORRENZA SLEALE
Innanzitutto la concorrenza sleale è, in linea di principio, una questione che afferisce le imprese, le aziende, benché in certuni casi, secondo recenti sentenze della cassazione, si estenda anche ai professionisti la disciplina, in virtù della presenza di alcuni elementi particolari. Pertanto uno dei presupposti principali è il presupposto di imprenditorialità per poter parlare effettivamente di concorrenza sleale. Quindi sia chi subisce gli atti sleali sia chi li determina debbono essere imprese. Ciò nonostante si può estendere il concetto non solo all’imprenditore vero e proprio ma anche ai suoi dipendenti, collaboratori o dirigenti d’impresa. Infatti non è necessario che venga provato l’ordine diretto dell’imprenditore ai propri subordinati ma che l’azione degli stessi sia finalizzata a perseguire il suo interesse. Inoltre la disciplina della concorrenza sleale è certamente estendibile anche ad imprese che siano in stato di liquidazione oppure, addirittura, che siano oggetto di procedura concorsuale, laddove non vi sia stata la dissoluzione del nucleo aziendale e/o vigano le disposizioni normative relative all’esercizio provvisorio. Altri presupposti sono quello della competizione merceologica, ossia le imprese debbono essere i competizione per lo stesso genere di prodotti e servizi. A tale riguardo si precisa che l’angolazione di osservazione del criterio merceologico si debba spostare soprattutto dal lato del bisogno del prospect, ovvero del mercato potenziale, principio per il quale, a titolo esemplificativo, un produttore di patatine può ritenersi in competizione con un produttore di popcorn, mentre non vi è lo stesso scenario laddove, sempre esemplificativamente, un’azienda produca abiti da lavoro e l’altra abiti da cerimonia. Infine non si può certo trascurare il criterio georeferenziale o se si preferisce territoriale, ovvero il luogo in cui si gioca la partita tra i concorrenti, dove si incontra l’offerta con la domanda. Sempre più spesso questo ambito di competizione è perlomeno nazionale in virtù della capillarità dei mezzi pubblicitari sui canali tradizionali ma anche su quelli telematici del web o dei social. In alcuni casi l’ambito può essere più ristretto, si pensi al comparto del commercio al dettaglio o degli esercizi commerciali afferenti alla ristorazione o alla ricettività.
La breve carrellata introduttiva si è resa necessaria per sintetizzare alcuni principi generali poi sedimentati dalla relativa giurisprudenza, e che servono a chiarire anche gli ambiti di applicazione prettamente investigativi, ovvero le modalità in cui una società di investigazioni può essere utile ad un’impresa, sgomberando il campo da alcune confusioni alberganti nella clientela delle agenzie investigative, che talora parla, ad esempio, di concorrenza sleale, anche quando si tratta di contenziosi tra privati e imprese o ancora tra azienda e dipendente. Ora entriamo nel merito delle fattispecie vere e proprie di concorrenza sleale.
FORME CONFUSORIE DI CONCORRENZA SLEALE
Si tratta di uno dei principi basici del codice civile che tutela le imprese proprio ponendo l’accento normativo sulla confusione dei segni distintivi. Tale confusione si può tipicizzare in alcune ricorrenze diffuse:
1) Utilizzo di nomi o segni distintivi di un altro imprenditore, generando confusione nel pubblico
2) Imitazione servile dei prodotti di un’altra impresa
3) Attuazione con qualsiasi altro mezzo di atti che generino confusione con i prodotti e l’attività di un concorrente
Tali fattispecie confusorie sono sancite dall’Art. 2598, n. 1, c.c.
In merito ai nomi e ai segni distintivi confusori, chiaramente si tratta della fenomenologia più diffusa e conosciuta sul mercato. Si pensi alla cronaca, a danno purtroppo del nostro “made in italy” relativamente al caso Parmigiano/Parmesano. Ciò che identifica un’impresa e/o il suo prodotto, il segno distintivo, può essere infatti il nome del prodotto, le caratteristiche grafiche del marchio, il packaging, pertanto si può parlare di confusione grafica ma anche di confusione fonetica o semantica. La concorrenza confusoria non è solamente tutelata e normata dal codice civile ma da altri cluster normativi, come, ad esempio, quelli afferenti la tutela del made in Italy, sigle come DOP, DOC o IGT che sanciscono con diverse gradazioni l’unicità del prodotto. Vi è poi la normativa e gli strumenti per difendere i marchi, attraverso la registrazione degli stessi sia a livello nazionale che europeo ed internazionale, la disciplina per tutelare i brevetti industriali e così via. Più problematica, a nostro avviso, è invero la disciplina relativa all’imitazione servile nonché la relativa giurisprudenza. Sappiamo che per imitazione servile si intende la pedissequa imitazione del prodotto del concorrente. Sappiamo però anche che tale imitazione per essere certamente perseguibile, deve essere relativa alla forma esterna del prodotto stesso piuttosto che alle sue parti interne.
Le investigazioni aziendali contro le forme di “confusione” o altrimenti definibile “contraffazione” sono già state da Sigent oggetto di dettagliato sviluppo tematico. Per riepilogare brevemente le indagini contro la contraffazione sono inerenti a prodotti o servizi contraffatti, che riproducono i prodotti di marche famose o comunque ben identificabili, generando un inganno al consumatore. Ma oltre alla vera e propria contraffazione che attiene soprattutto al fenomeno suddescritto, vi sono pratiche imitative che non attuano una contraffazione vera e propria ma generano appunto confusione. Ad esempio l’imitazione di un marchio, di un nome di prodotto o di ragione sociale.
Passiamo ad alcuni esempi concreti di fatti di concorrenza sleale secondo i criteri confusori.
Un’impresa di occhialeria che produce occhiali a marchio “Persol” ovviamente si pone in diretta concorrenza con il noto gruppo Luxottica, parimenti si configura fattispecie confusoria, laddove un’azienda di confezioni veicoli sul mercato capi a marchio ”Emporio Ermani”, troppo simile al marchio stranoto “Emporio Armani”.
Ma l’atto di confusione può afferire non solo al nome ma, come detto, anche ad elementi grafici o fonetici o allo stesso slogan pubblicitario; sappiamo che molti slogan sono ormai associabili in modo inscindibile all’impresa reclamizzata, concorrendo in modo pervadente a costituirne il segno distintivo, la corporate identity.
Se l’ipotetica Torrefazione Rossi lanciasse spot pubblicitari con lo slogan “Più lo mandi giù, più ti tira su” sarebbe fin troppo semplice ipotizzare un tentativo di generare confusione tra i consumatori con il più affermato marchio Lavazza.
Anche un’insegna commerciale può essere lo strumento di una ipotesi di concorrenza sleale confusoria, un negozio di mobili da soggiorno non potrà facilmente pensare di passare inosservato laddove adotti l’insegna “Poltrone Sofà”.
Secondo lo stesso principio anche il web diviene terreno fertile per tentativi di slealtà concorrenziale , per prima cosa attraverso i domini, è infatti oramai giurisprudenzialmente consolidato che anche il dominio web rientri appieno nella fattispecie di segno distintivo dell’impresa. Sempre più spesso vi sono sentenze a danno di imprese, ad esempio, che coniano domini contenenti il marchio di un più famoso concorrente.
DIFFAMAZIONE, DENIGRAZIONE
Lo stesso art. 2598 al comma 2 tratta appunto il tema così:” diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito“.
Le investigazioni aziendali contro questo tipo di concorrenza sleale presentano talora delle criticità di natura operativa poiché meno tipizzate rispetto alla concorrenza sleale attuata con forme confusorie, anche perché le forme concrete in cui si manifesta potenzialmente questo tipo di comportamento sleale sono invero molteplici. Ci teniamo però innanzitutto a circoscrivere il perimetro di applicabilità di questo indirizzo normativo, evitando di sconfinare dall’ambito della concorrenza sleale propriamente detta. Per questo tipo di atto concorrenziale occorrono alcuni meccanismi presuppositivi che innescano la circostanza fattuale prevista dalla legge, come, ad esempio, il fatto che la denigrazione o la diffamazione debba essere pertinente a notizie o dati che siano “falsi”. Quindi si parla della diffusione di dati o giudizi sull’attività dell’impresa, sui suoi prodotti o sulla stessa persona dell’imprenditore (limitatamente a quanto attinente alla sua funzione imprenditoriale) che comportano o possano potenzialmente comportare perdita di prestigio o calo di fiducia da parte di consumatori, clienti, fornitori o degli stessi dipendenti dell’impresa.
Le nostre investigazioni aziendali contro questa tipologia di concorrenza sleale mirano innanzitutto ad un principio metodologico al fine di produrre elementi probatori realmente utili in ambito processuale, partendo ovviamente dalla loro validità giudiziale, come scontato, e parallelamente che abbiano un’angolazione asettica ovvero siano per quanto possibili oggettivi. Quando si parla di denigrazione o diffamazione, della diffusione di notizie o dati tendenziosi o addirittura diffamatori, non sempre è possibile predisporre mediante anche impeccabili (sotto il profilo metodologico) azioni investigative una serie di prove inattaccabili o potenzialmente discutibili, pertanto preferiamo concentrarci sulla qualità dell’elemento probatorio piuttosto che sulla quantità. Si può considerare attinente a questo ambito di circostanze concorrenziali scorrette anche la cosiddetta “pubblicità comparativa”, la quale, sulla base di principi chiari, è consentita a meno che la comparazione tra i propri prodotti/servizi e quelli del concorrente non sfoci poi nella conseguente azione denigratoria. Più sfumati sono i contorni della comunicazione pubblicitaria superlativa in cui in effetti viene propagato il concetto di magnificazione della propria offerta, presupponendo un’eccellenza della medesima. I famosi “iper” o “super” o “migliori sul mercato”, formule di non certo ridotta diffusione sulle quali tuttavia vi sono diffusamente interpretazioni più liberali nella disciplina concorrenziale. La concorrenza sleale attraverso queste pratiche pubblicitarie distorsive della leale competizione, è facilmente riscontrabile, anche a livello investigativo, quando avviene su media quali reti televisive, stazioni radiofoniche oppure sui canali più noti del web. Diviene più complicata laddove si utilizzino strumenti diversi quali le cosiddette vele stradali itineranti, camion pubblicitari, pubblicità aerea, pubblicità sui social, pubblicità sul web al di fuori dei canali principali e elle loro forme più note.
Quando parliamo di pubblicità comparativa, si affronta un contesto anche complesso per cui vanno chiariti alcuni elementi esemplificativi al fine di rendere possibile le circostanze in cui si prefigura la pratica concorrenziale sleale.
Per iniziare la pubblicità comparativa “non deve essere ingannevole”, lo è quando per ipotesi mette a confronto i prezzi di 3 diversi esercizi concorrenti (es. supermercati) senza specificare con chiarezza i prodotti presi in considerazione. Il confronto deve essere su beni o servizi omogenei che soddisfino gli stessi bisogni e si pongano gli stessi obiettivi, per cui ne discende che laddove si operasse una comunicazione pubblicitaria comparativa tra una crema cosmetica e una pomata medicinale, si rientra nella fattispecie di concorrenza sleale attraverso scorretta pubblicità comparativa, in quanto la pomata ha finalità curative ed invero la crema è un prodotto meramente cosmetico.
Nel caso di un’impresa meno nota e di una affermata sul mercato, è scorretto comparare il proprio prodotto con quello del famoso concorrente, non evidenziando le peculiarità del proprio prodotto ma gli aspetti che lo rendono simile o affine all’altro; l’ipotetico produttore dell’altrettanto ipotetica Colafrizz non può pubblicizzare il suo prodotto con lo slogan “frizzante e buona come la Coca Cola”.
APPROPRIAZIONE DI PREGI
La normativa corrente non sanziona solamente le pratiche denigratorie ma anche quelle relative all’appropriazione di pregi di un’impresa concorrente Per appropriazione si intende la semplice comunicazione al pubblico che la propria impresa o i propri prodotti presentano gli stessi pregi dell’impresa o dei prodotti di un concorrente, dove “pregio” è qualsiasi caratteristica,anche non rara, che il mercato valuti positivamente e che sia pertanto capace di influire sulle scelte del pubblico. Chiaramente tale autoattribuzione deve avere un presupposto di falsità, ovvero l’impresa si deve attribuire pregi che in realtà non possiede.
Il caso più tipico che riscontriamo anche nelle investigazioni aziendali contro la concorrenza sleale è quello dell’usurpazione dei marchi di origine o tutela. Si pensi al made in italy, ma anche al marchio CEE, oppure all’uso improprio delle varie sigle quali DOGC o DOP. Si pensi ad una panetteria che spaccia come Pane di Altamura DOP normali filoni di pane o la gelateria che millanta l’uso del Pistacchio di Bronte o del Cioccolato di Modica per realizzare i propri prodotti senza che tali componenti siano realmente presenti.
Nella stessa branchia tipologica di concorrenza sleale, esiste anche il cosiddetto “agganciamento”, dove il concorrente sleale attua pratiche commercialmente scorrette apponendo accanto al proprio marchio quello del player più noto. E’ il caso del “formaggio tipo Grana”, del “prosciutto tipo San Daniele” o della “visura camerale tipo Cerved”. L’imprenditore scorretto e sleale, “aggancia” i beni o servizi da lui prodotti o commerciati a quelli più famosi e diffusi del concorrente per “mettersi in scia”, approfittando così in modo parassitario del lavoro e dell’investimento compiuto dall’altro per ottenere l’accreditamento sul mercato.
ANTITRUST
Fino ad ora si sono esaminate circostanze di concorrenza sleale in cui l’investigatore privato è chiamato ad intervenire per reperire elementi di prova al fine di dimostrare un atto di concorrenza confusoria, comunicativa o denigrativa di un’impresa verso un’altra impresa.
Tale parte della concorrenza sleale pur essendo casisticamente significativa non esaurisce lo spettro delle investigazioni aziendali sulla concorrenza sleale.
Ad esempio esiste la circostanza in cui due o più imprese assumano tra di loro accordi al fine di formare un “cartello” o se si preferisce il termine anglosassone un “trust” per escludere dalla regolare competizione di mercato, o per limitarne fortemente l’accesso, alle altre imprese. Le azioni di trust sono monitorate dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, più comunemente nota come Antitrust. Ovviamente non sempre è semplice dimostrare l’esistenza occulta di un cartello di imprese e quindi invocare l’intervento del garante o di altri strumenti legali. Si può attuare un trust attraverso accordi finalizzati a restringere l’ambito concorrenziale magari segmentando un territorio e suddividendolo per aree di “esclusiva”, spartendosi appunto diverse zone rinunciando a farsi concorrenza e magari indirizzando potenziali clienti a beneficio del membro del cartello che ha come da accordi pertinenza su quella zona.
Ma la concorrenza può essere ristretta anche con altri criteri rispetto a quelli della spartizione del territorio, magari adottando listini comuni oppure fissando prezzi minimi comuni al fine di distorcere il regolare flusso del mercato. Parimenti le imprese del cartello possono agire sul lato dei fornitori o ancora sui canali distributivi o di approvvigionamento logistico.
ABUSO DI POSIZIONE DOMINANTE
Non è certo illegale che un’azienda detenga una quota di mercato maggioritaria o comunque rilevante in un settore merceologico, ciò che diviene illegale è l’abuso di questa posizione, che si materializza con meccanismi distorsivi del mercato stesso. Quando un’azienda “domina” un mercato può trarre abuso da questa posizione allorché imponga condizioni di vendita o contrattuali ingiustificatamente gravose, quando si muova per impedire l’accesso a quel mercato ad altri imprenditori pregiudicandone ad esempio le possibilità di sviluppo tecnologico a danno dei consumatori o infine, evento non certo raro, quando imponga, forte della sua posizione, condizioni supplementari al fine del perfezionamento del contratto. Ma il RAFFORZAMENTO DELLA POSIZIONE DOMINANTE avviene anche attraverso l’acquisizione di imprese concorrenti oppure mediante processi di aggregazione e di concentrazione. Le investigazioni aziendali debbono individuare queste circostanze per renderle evidenti e sottoponibili a un organo decisiorio a livello legale. Si tratta di operazioni in se non illecite se non approntate in modo da aggirare la normativa concorrenziale, circostanza che spesso avviene celando tali concentrazioni con la costituzione di holding, apposite newco, o gruppi commerciali e industriali mascherati.
ALTRI CASI DI CONCORRENZA SLEALE
Il legislatore, dopo aver affermato l’illiceità degli atti di concorrenza confusoria, denigrazione e appropriazione di pregi dei prodotti o dell’attività del concorrente, stabilisce che in ogni caso compie un atto di concorrenza sleale chi “si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda” (art. 2598, n. 3, c.c.).
In particolare sono da considerarsi comportamenti contrari ai principi di correttezza professionale generalmente accettati nel mondo degli affari e idonei a danneggiare l’altrui azienda:
- la concorrenza parassitaria (che abbiamo già trattato)
- il boicottaggio
- le vendite sottocosto
- lo storno di dipendenti
- la sottrazione di segreti aziendali
- la violazione di norme di diritto tributario, penale e amministrativo
- la pubblicità ingannevole
BOICOTTAGGIO
Vi sono varie forme di boicottaggio, solitamente attuate da imprese che beneficiando di posizioni dominanti sul mercato, possono cercare di condizionarlo allo scopo di recare danno ad un’impresa concorrente. Si parla ad esempio di boicottaggio primario allorché un’azienda affermata, magari in regime di monopolio nella produzione di un determinato bene o servizio, decida deliberatamente di non rifornire più un rivenditore per ottenere la sua estromissione dal mercato. Invero si può parlare di boicottaggio secondario qualora un’impresa ostacoli l’ingresso sul mercato di un concorrente convincendo ad esempio i fornitori potenzialmente o concretamente comuni a non avere rapporti con esso, magari offrendosi per perseguire tale finalità a corrispondere ad essi un prezzo maggiore.
Nella nostra esperienza investigativa abbiamo sovente incontrato queste tipologie di boicottaggio, di azioni commercialmente scorrette e prepotenti, sintomatiche del timore di perdere posizioni di privilegio, di quote consolidate di mercato, nel timore che l’azienda concorrente possa sottrarre affari . Tuttavia, non di rado, le azioni di boicottaggio sono innescate da rancori personali o da futili motivi che però possono incidere in maniera preponderante sullo sviluppo dell’iniziativa imprenditoriale danneggiata. Ciò determina la necessità di indagini aziendali svolte con particolare attenzione e mirate a reperire elementi probatori, testimoniali e documentali incontrovertibili e validi legalmente al fine di sostenere le istanze dell’azienda danneggiata.
VENDITA SOTTOCOSTO
Il ribasso dei prezzi è sostanzialmente una pratica lecita soprattutto se legata a contesti promozionali ovvero limitati nel tempo. Più discutibile è la pratica della “vendita sottocosto” anch’essa lecita laddove legata a contesti temporali limitati e legati alle esigenze contestuali dell’impressa (si pensi alla liquidazione di un negozio per rinnovo dei campionari piuttosto che dei locali). Chiaramente se tale pratica persiste nel tempo può ritenersi invece contraria ai principi della correttezza professionale soprattutto laddove il bene o servizio sia commercializzato sistematicamente a prezzi inferiori agli stessi costi di produzione sostenuti dall’impresa o dai costi sostenuti mediamente da tutte le imprese concorrenti. Nel retail, il commercio al minuto, è diffusa ad esempio la pratica del “gâchage” ovvero vengono praticati su prodotti-civetta, di forte richiamo sulla potenziale clientela, prezzi sottocosto, al fine di farli fungere da polo attrattivo, per poi contemperare la cosa attraverso ricarichi più alti su altri prodotti. Ad esempio un negozio di dolci può ipoteticamente promuovere la vendita di Baci Perugina a 0,20 € per poi ricaricare altri articoli in modo anche eccessivo. Se l’operazione venisse eseguita sotto le festività natalizie potrebbe avere certamente successo.
Questo tipo di operazioni commerciali scorrette e sleali sono oggetto di un’azione investigativa mirata e scrupolosa volta a raccogliere tutti gli elementi probatori necessari al fine di comporre un quadro che possa supportare in modo efficace le istanze del cliente in ambito legale.
STORNO DEI DIPENDENTI
Come sappiamo assicurarsi un grande calciatore, un fuoriclasse, può comportare indubbi benefici per una squadra di calcio. Allo stesso modo diviene fisiologico per un’impresa divenire attrattiva ed assicurarsi i migliori collaboratori e dipendenti disponibili sul mercato. E’ chiaramente lecito per un imprenditore allettare il dipendente di un’impresa concorrente attraverso l’offerta di migliori condizioni di lavoro, di benefits piuttosto che una più elevata retribuzione. Ma se tale offerta è motivata dall’intenzione di disgregare l’azienda concorrente e recare un danno si configura l’ipotesi dello storno dei dipendenti.
Certamente il problema si pone nelle investigazioni aziendali su come produrre elementi di prova che possano dimostrare l’intenzionalità sleale dell’impresa e gli elementi più ricorrenti, certamente non semplici da individuare sono i seguenti:
- La presenza di una talpa all’interno dell’impresa danneggiata che fornisca notizie al concorrente sleale; per esempio laddove avvisi il soggetto che c’è un dipendente/collega appetibile in fase di contrasto con il datore di lavoro ovvero vi sia del malcontento rendendo il momento propizio per un’offerta. Tale fatto è ovviamente più rilevante laddove la talpa sia retribuita dal concorrente
- Un altro elemento certamente rilevante è che vi sia un elevato numero di dipendenti dell’impresa danneggiata che passino alle dipendenze del concorrente sleale; tale fatto può essere mascherato ad arte non rendendo fluido provare il nesso di casualità. Ad esempio l’imprenditore sleale può distanziare il decorso dei diversi contratti dei dipendenti “rubati” oppure può mantenerli temporaneamente “in nero” o ancora dislocarli in mansioni da remoto o con contratti di collaborazione esterna che preludono ad un’assunzione già concordata
- Rilevante è che i dipendenti o i collaboratori aziendali siano “assi portanti” , un direttore commerciale, un progettista, un direttore del personale, ad esempio, quindi risorse di certo non facilmente sostituibili
- Il fatto che lo storno sia legato al tentativo dell’azienda concorrente di sottrarre segreti aziendali
SOTTRAZIONE DI SEGRETI INDUSTRIALI E AZIENDALI
Ovviamente si tratta di un problema investigativo che noi stessi leghiamo abitualmente all’infedeltà di dipendenti, dirigenti e soci. Chiaro che si configura l’ipotesi di concorrenza sleale laddove nel fatto sia coinvolta un’impresa concorrente. Infatti il dipendente che intende appropriarsi di segreti aziendali al fine di porre in essere un’iniziativa imprenditoriale propria, è probabilmente un dipendente infedele ma non è un concorrente, in quanto, come detto inizialmente, occorre per porre in essere la concorrenza sleale che tra le due parti sia in comune il requisito della imprenditorialità. Più nitido è il caso in cui il dipendente infedele sia in combutta con un’azienda concorrente e quindi si prefigura più chiaramente l’ipotesi di concorrenza sleale finalizzata alla sottrazione di segreti aziendali o industriali. Ma quando si può parlare compiutamente di segreti aziendali ? Utili indicazioni possono oggi ricavarsi dal codice della proprietà industriale (artt. 98 e 99), che riconosce al ”legittimo detentore” il diritto di vietare ai terzi di acquisire, rivelare a terzi o utilizzare informazioni ed esperienze aziendali segrete, ossia non «generalmente note o facilmente accessibili agli esperti od operatori del settore» e che, in quanto tali, abbiano un valore economico e siano sottoposte a misure idonee a tenerle segrete. Infedeltà interna e concorrenza sleale come si può comprendere si intrecciano stesso negli incarichi investigativi da noi gestiti. Non necessariamente vi deve essere il coinvolgimento diretto di un concorrente. E’ il caso del “dipendente infedele imprenditore”, ovvero uno o più dipendenti che vengano licenziati o si dimettano da un posto di lavoro presso un’azienda e che aprano attività concorrenziali. Vi deve essere intanto la certezza che non era vigente un patto di non concorrenza. Poi ovviamente ci sono diverse casistiche. Laddove due ex dipendenti di un’azienda di macchinari industriali ne fondino una nuova con macchinari similari a quelli dell’ex datore di lavoro, lo possono fare se i dati tecnici e le informazioni per poterli costruire non siano stati adeguatamente protetti dall’ex azienda. Un caso investigativo ancor più comune è quello di funzionari commerciali, responsabili vendite, agenti commerciali interni. Si tratta di figure che cn diversa gradazione possono essere assai rilevanti nell’a
CONCORRENZA SLEALE ATTRAVERSO ILLECITI PENALI, TRIBUTARI E AMMINISTRATIVI
E’ lapalissiano che laddove un’impresa di commercio al dettaglio violi norme amministrative, attraverso esemplificativamente la mancanza di battitura dello scontrino fiscale, ciò comporta un atto di concorrenza sleale oltre che un illecito tributario, soprattutto laddove con il conseguente risparmio dei costi dovuti al mancato rilascio dello scontrino fiscale può finanziare un’azione sistematica di ribasso dei prezzi, a danno dei concorrenti, Parimenti anche alcune violazioni di tipo amministrativo che sono sanzionate con norme specifiche possono assumere la rilevanza di atti di slealtà commerciale; due bar, concorrenti sullo stesso territorio, sono in competizione diretta, perché magari il loro comune target sono i giovani dediti allo struscio e alla movida. Se uno dei die rispetta l’obbligo di non vendere bevande alcoliche ai minorenni e l’altro no, ne consegue un indebito vantaggio, che può configurare l’ipotesi di concorrenza sleale. Sono molteplici le casistiche investigative di questa tipologia che ci sono occorse in quasi trenta anni di esperienza nel campo delle investigazioni aziendali per concorrenza sleale.
PUBBLICITA’ INGANNEVOLE
Come sappiamo in Italia anche l’AGCM ha diretta competenza sulla pubblicità ingannevole; per istruire una pratica e fare un’istanza all’Authority Antitrust, occorre procurarsi elementi probatori a sostegno o almeno è quantomeno consigliabile. Le investigazioni contro un concorrente sleale che adotta mezzi pubblicitari ingannevoli sono finalizzare a tutelare l’azienda committente che viene danneggiata, a differenza di altre fattispecie di concorrenza, non in modo diretto ma indotto dalla pratica sleale del competitor.
La pubblicità ingannevole è fonte di illecito concorrenziale quando è capace di indurre in errore i suoi destinatari e perciò di falsare il loro comportamento economico spingendoli a prendere decisioni che non avrebbero altrimenti adottato e, di conseguenza, idoneo a provocare uno sviamento di clientela lesivo dei concorrenti.
L’azione dell’agenzia investigativa deve essere finalizzata a definire i contorni dell’INGANNO., il quale può essere relativo a diversi ambiti, quali:
- caratteristiche dei beni o dei servizi reclamizzati, quali: l la loro disponibilità, la natura, la composizione o l’idoneità allo scopo (es. È stata ritenuta ingannevole la pubblicità di abbonamenti a pubblicazioni periodiche che venivano presentate come richieste di versamenti obbligatori a seguito di iscrizione dei destinatari alla Camera di Commercio)
- origine geografica o commerciale (es.il messaggio pubblicitario di un’impresa che apponeva un cartiglio con scritto “prodotti originali sardi” sul collo della bottiglia di un rosolio di propria produzione, è stato ritenuto ingannevole in quanto la produzione veniva realizzata con componenti provenienti dalla Toscana)
- i risultati che si possono ottenere con l’uso del prodotto o del servizio o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove o controlli effettuati sui beni o sui servizi.(es. classico l’esempio dei prodotti contro la caduta dei capelli che promettono enfaticamente strepitosi risultati non dimostrati)
- prezzo e condizioni di vendita (ad esempio vengono ritenuti ingannevoli le vendite rateali con indichino il numero delle rate oppure il TAEG)
- caratteristiche dell’inserzionista (un’azienda che millanta di annoverare importanti clienti nel proprio portafoglio citati come referenze quando non ne ha).
Sono pratiche pubblicitarie ingannevoli che chiaramente possono indurre in inganno il cliente e il consumatore e comportare un danno al concorrente; ad esempio, laddove un’importante fabbrica di automobili interpelli per un incarico investigativo due istituti di investigazione e si lasci convincere dalle altisonanti referenze presenti sul sito web di uno dei due istituti, se tali referenze non sono reali, vi è un danno procurato all’impresa concorrente.
VIOLAZIONE DI PATTI DI NON CONCORRENZA
Al di là del patto di non concorrenza che talora un datore di lavoro appone a tutela del proprio know how ai contratti dei propri dipendenti e collaboratori, esistono patti espressi di non concorrenza tra imprese o comunque tra soggetti con il requisito dell’imprenditorialità. Si pensi al Sig. Bianchi che ha un’attività di articoli sanitari e che la cede per un notevole corrispettivo ; l’acquirente vorrà tutelarsi inserendo nella transazione un vincolo di non concorrenza, per un periodo stabilito, per il soggetto venditore, il Sig. Bianchi. Di solito si stabilisce nelle condizioni anche il Foro competente oppure si fa ricorso allo strumento dell’Arbitrato per dirimere eventuali controversie.
Per ovviare all’osservanza di tali obblighi, talora accade che coloro che cedono le attività o i rami di impresa, utilizzino il ricavato per finanziare nuove iniziative imprenditoriali concorrenti, magari usando dei prestanomi o altri stratagemmi. In questo caso la concorrenza sleale si concretizza violando non disposizioni di legge generali che regolano e disciplinano il mercato e la competizione tra imprese, ma infrangendo direttamente accordi e patti espressi, normalmente registrati ed ufficializzati.
Come si è potuto vedere sono veramente molte le articolazioni possibili delle investigazioni e delle indagini contro la concorrenza sleale. Vi sono casi semplici, altri che richiedono un accurato studio e un piano di investigazioni ben articolato e mirato ad ottenere le prove giuste per i target investigativi definiti dalla committente e/o dal proprio staff legale.